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L’elezione del Doge di Venezia? Un esempio per le nomine pubbliche

Argomento: Politica italiana

Creato da Mauro Fontana il 05/28/2009 alle 18.21



Casualità e cooptazione. Commissioni elettorali ristrette che si allargavano per poi restringersi di nuovo. A soffietto, fino alla votazione finale. Così i miei antichi concittadini eleggevano il Doge che li avrebbe governati. Una procedura complessa e affascinante, concepita per rendere impossibile ogni corruttela e gioco di potere nelle fila della nobiltà veneziana. Si ricorreva infatti all’estrazione di palline metalliche con delle pinze di legno da parte del primo bambino che, alla morte del Doge, il consigliere più giovane avesse incontrato per strada uscendo dal Palazzo. Queste contenevano ciascuna il nome del candidato e si chiamavano balote (da qui la moderna parola “ballottaggio”).

Il bambino prelevava dall’urna tante palline d’argento quanti erano i componenti del Maggior Consiglio. I nomi di trenta di loro (che non dovevano comunque appartenere alla stessa famiglia) erano però contenuti in sfere d’oro, e andavano così a costituire la prima commissione elettorale. Di questi ne venivano scartati a sorte ben 21. I nove restanti ne dovevano nominare altri 40, ridotti successivamente a 12 per ballottaggio. Questi a loro volta avevano il compito di eleggere altri 25 membri, da cui estrarne 9 che eleggessero altri 45 consiglieri, da cui estrarne a loro volta 11 che nominassero i 41 consiglieri cui sarebbe spettata finalmente l’elezione del nuovo Doge.
Quest’ultimo, va detto, diventava subito prigioniero della propria condizione. Figura sostanzialmente simbolica e rappresentativa, il suo potere effettivo si limitava al comando della flotta in tempo guerra. Era costantemente controllato in ogni sua mossa, e persino l’apertura della corrispondenza doveva avvenire alla presenza di almeno quattro consiglieri. Viveva in un fasto regale, ma doveva ricorrere al proprio patrimonio per sostenere gran parte delle spese per il mantenimento del Palazzo.

Gli eventuali doni ricevuti dai dignitari andavano poi ad accrescere il Tesoro di San Marco oppure finivano all’erario pubblico. Agli stessi membri della sua famiglia era fatto divieto di arricchirsi: le loro risorse venivano registrate al momento dell’elezione del congiunto e l’eventuale differenza maturata nel tempo finiva anch’essa, immancabilmente, nelle casse della Repubblica. Insomma, non un grande affare. Tant’è vero che solo in pochissimi potevano permettersi un Doge in famiglia.

Questi, dunque, i particolarissimi meccanismi di elezione e le regole di comportamento imposti all’uomo più in vista nella potente Repubblica di Venezia. E se venissero applicati per le nomine pubbliche nell’Italia di oggi? Se ne vedrebbero delle belle. E, chissà, forse dei migliori.

(tratto da http://www.renatobrunetta.it/2009/04/29/l%E2%80%99elezione-del-doge-di-venezia-un-esempio-per-le-nomine-pubbliche/)





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